lunes, 17 de enero de 2011

Montale

Quaderno di quattro anni.
Eugenio Montale


Quaderno di quattro anni, il sesto libro poetico, fu pubblicato nel 1977 dalla Casa editrice Mondadori e contiene 111 poesie.
Come già in Diario del ’71 e del ’72 il libro non è diviso in sezioni e le poesie si susseguono l’una dopo l’altra senza un tema predeterminato e ogni poesia svolge un tema suo senza antecedente né conseguenti nella forma libera già conosciuta nel libro precedente.

La prima poesia è L’EDUCAZIONE INTELLETTUALE.

Questa è un poesia importante e ad anche bella. Montale ripercorre la sua esperienza poetica e cultuale, partendo dall’opera di Paul Valery “Il cimitero marino” , per arrivare poi ai razionalisti e agli irrazionalisti che sono simboleggiati da Nietzsche, affermando il suo pessimismo esistenziale ed antropologico e conclude con questi versi sconsolanti:

<tutto era poi mutato. Il mare stesso/
s’era fatto peggiore.
Ne vedo ora crudeli assalti al molo, non s’infiocca /
più di vele, non è il tetto di nulla,/
neppure di se stesso.>>.


Dopo molte poesie di vari temi e di giudizi suoi su molta aspetti della sua vita e sulla natura e su vari personaggi si arriva al primo capolavoro VIVERE.
Ecco il testo.


VIVERE
Vivere? lo facciano per noi i nostri domestici.
Villiers De L’Isle-Adam.
E’ il tema che mi fu dato
quando mi presentai all’esame
per l’ammissione alla vita.
Folla di prenativi i candidati
Molti per loro fortuna i rimandati.
Scrissi su un foglio d’aria senza penna
e pennino, il pensiero non c’era ancora.
Mi fossi ricordato che Epitteto in catene
Era la libertà assoluta l’avrei detto,
se avessi immaginato che la rinunzia
era il fatto più nobile dell’uomo
l’avrei scritto ma il foglio restò bianco.
Il ricordo obiettai, non anticipa, segue.
Si udì dopo un silenzio un parlottio tra i giudici,
poi uno di essi mi consegnò l’accessit
e disse non ti invidio.


II
Una risposta

Da terza elementare. Me ne vergogno.
Vivere non era per Villiers la vita
né l’oltrevita ma la sfera occulta
di un genio che non chiede la fanfara.
Non era in lui disprezzo per il sottobosco.
Lo ignorava, ignorava quasi tutto
e anche se stesso. Respirava l’aria ù
dell’Eccelso come io quella pestifera
di qui.


Questa poesia esprime tante sensazioni ed emozioni davvero profonde e personale.
Presenta anche una ricchezza di idee esistenziali davvero profonde ed originale.
Il poeta parte con un fescbek e incomincia a raccontare la sua vita dal momento della sua nascita in un mondo prenatale. Non consoce la filosofia però parla di Epitteto, il quale affermava che anche uno schiavo poteva essere libero interiormente, poi parla da vecchio saggio poiché dice che la rinunzia alla vita era un fatto nobile lo avrebbe detto, invece disse appena che il ricordo della vita segue non anticipa. Poi parla dei giudici che lo promuovono ugualmente e uno gli consegna l’accessit. Poi riprende l’epigrafe e fa parlare Villiers secondo il quale la vita non è la vita epifania né l’oltre vita ma una sfera occulta di un genio. Lui non conosce gli altri e ignora anche se stesso. Infine il poeta che era scomparso rientra e dice la sua:<>.

La conclusione è il messaggio della poesia: la sola vita degna di essere vissuta è quello dell’Eccelso, l’altra vita quella giornaliera e banale degli uomini comuni non è degna di essere vissuta. Ed ecco l’importanza dell’epigrafe Vivere? Lo facciano per noi i nostri domestici, come dire la vita, con la V maiuscola, è sola quella dell’Eccelso, l’altra quella umana la vivano per noi i nostri domestici, qui identificati, come gli uomini schiavi della vita, come esseri inferiori, ma non viventi. Montale espone il suo punto di vista sulla vita ed esprime anche il suo disprezzo per una vita banale ed inferiore. La bellezza della poesia sta nella varietà dei contenuti e nella bellezza dell’espressioni. Sembra una prosa ma invece è una poesia perché il ritmo e l’originalità delle espressioni sono talmente nuove e personale che stravolgono il lettore facendolo spazziare da tono surrealistico a un tono tragico a un tono ironico e sarcastico. Anch’io condivido questa tesi: la sola vita degna di essere vissuta è quella dell’Eccelso, l’altra vita quella epifania, maledetta, priva di felicità non vale la pena di viverla e anch’io se avessi i miei domestici farei vivere la mia vita a loro!!!.


Segue a poco distanza un altro capolavoro poetico: SUL LAGO D’ORTA.
Dopo aver descritto alcune immagini di una villa abbandonata Montale prova una strana angoscia e vede che su un terreno sabbioso vi sono dei Salici che piangono davvero e dove tutto è silenzio. E poi si chiede:

<fosse più che un’ubbia /
sarebbe strano trovarlo dove neppure un’anguilla tenta di sopravvivere>>


e termina con un battuta finale, consueta in molte poesie montaliana,

<una famiglia inglese. Purtroppo manca il custode/
ma forse quegli angeli (angli) non erano così pazzi /
da essere custoditi>>.

Il messaggio della poesia è evidente: la vita è sorta in un luogo dove non poteva nascere, dove nemmeno, un’anguilla tenta di sopravvivere e dove i Salici piangono davvero. Non c’è bisogno di nessun bandolo tutto rimarrà oscuro ede incomprensibile agli uomini.

Segue un’altra poesia molto bella IN NEGATIVO.

E il testo.
È strano.
Sono stati sparati colpi a raffica
Su di noi e il ventaglio non mi ha colpito.
Tuttavia avrò presto il benservito
fosse in carta da bollo da presentare
chissà a quale burocrate; ed è probabile
che non occorra altro.
Il peggio è già passato.
Ora sono superflui i documenti, ora
é superfluo anche il meglio. Non c’è stato
Nulla, assolutamente nulla dietro di noi,
e nulla abbiamo disperatamente amato più di quel nulla.


Montale mostra in questa poesia tutto il suo pessimismo, il quale si avvicina molto al pessimismo leopardiano,quando anche lui parla del solido nulla.

È la vittoria del nichilismo: tutti gli uomini sanno che siamo nulla e che non risarà che il nulla, ma ecco il tocco del genio poetico, Montale dice tutti compreso lui ama quel nulla così disperatamente. Alla fine risulta che la vita è tanto amata e tanto odiata, perché amiamo una cosa che è nulla che diventerà nulla, qualcosa che non esiste, ma per un breve attimo amiamo e ciò non si può negare. La vita è dunque un conquistarsi un biglietto da presentare a un burocrate per rilasciarci il salvacondotto per una altra vita di cui non si conosce niente.

Dopo poche altre poesie si arriva ad un altro capolavoro poetico

AI TUOI PIEDI.
Ecco il testo della poesia.

Ai tuoi piedi.

Mi sono inginocchiato ai tuoi piedi
O forse è un’illusione perché non si vede
nulla di te
ed ho chiesto perdono per i miei peccati
attendendo il verdetto con scarsa fiducia
e debole speranza non sapendo
che senso hanno quassù il prima e il poi
Il presente il passato l’avvenire
e il fatto che io sia venuto al mondo
senza essere consultato.
Poi penserò alla vita di quaggiù
non sub specie aeternitatis,
non risalendo all’infanzia
e agli ingloriosi fatti che l’hanno illustrata
per poi accedere a un dopo
di cui sarò all’anteporta.
Attendendo il verdetto
Che sarà lungo o breve grato o ingrato
Ma sempre temporale e qui comincia
L’imbroglio perché nulla di buono è mai pensabile
Nel tempo,
ricorderò gli oggetti che ho lasciati
al loro posto, un posto tanto studiato,
agli uccelli impagliati, a qualche ritaglio
di giornale, alle tre o quattro medaglie
di cui sarò derubato e forse anche
alle fotografie di qualche mia musa

che mai seppe di esserlo,
rifarò il censimento di quel nulla
che fu vivente perché fu tangibile
e mi dirò se non fossero
queste solo e non altro la mia consistenza
e non questo corpo ormai incorporeo
che sta in attesa e quasi si addormenta.

Questa stupenda poesia su Dio è tutta costruita su un equilibrio di sfumature ironiche e sarcastiche su attese metafisiche e ritorni sulla terra. Con un tono emotivo vario: si passa dalla delusione all’illusione dalla scarsa fiducia in Dio all’attesa di un verdetto che non avrà molto importanza dato che sarà soggetto alle leggi del tempo e queste sono sempre imperfette, si passa dal chiedersi del senso dell’aldilà al senso di una vita trascorsa senza essere consultato prima di venire al mondo (e su questo punto si riallaccia a Vivere). E nell’attesa di questo verdetto il poeta ripensa alla sua vita di quaggiù che gli sembra poca cosa e si chiede se tutto la sua consistenza sia consistita nel suo corpo ormai diventato incorporeo e quasi si addormenta. Il finale solito, tra ironia e sarcasmo, esprime tutta la delusione di un mondo Divino da cui provengono verdetti grati o ingrati ed esprime anche la delusione della condizione umana fatta essenzialmente e precariamente di un corpo che diventa evanescente e anche debole e allora si addormenta come fanno i bambini quando sono stanchi e si addormentano facilmente sulle braccia della madre.

Come già Montale aveva mischiato DEI e DIO come mitologia religiosa, ora Montale mischia salvezza eterna e sprofondamento nel nulla, come afferma nella poesia

Le PROVE GENERALI, quando scrive:

<vederne alcuno di prima di sparire/
nel più profondo nulla.>>

o come aveva scritto IN negativo:

<e nulla abbiamo disperatamente amato più di quel nulla>>.

Anche ora non si capisce se Montale tiene di più per l’ipotesi della salvezza eterna per mano di Dio o se auspica il profondo nulla. La verità è che Montale non lo sa neppure lui, ma elenchi tutte le possibilità della gente comune: la via religiosa, la via atea, la via agnostica, la via scettica, la via meccanicistica, la via spirituale senza preferirne una.

Dopo altre poesia si arriva a una breve poesia

“Nel disumano” dedicata alla moglie in cui è evidente tutta l’incredulità e la limitatezza umana di fronte alla morte. Ecco i versi finali:

<che chi si muove in fretta trova il posto migliore./
Ma quale posto e dove? Si continua
A pensare con teste umane quando si entra /
nel disumano.>>

E qui per disumano potrebbe intendersi un posto infernale o l’ade degli antichi greci.

Poco poesie dopo si legge “Quel che resta (se resta)” nella quale Montale riafferma la sua legge etica ed antropologica (già scritta nel famoso articolo Soliloquio): <>.

Dopo altre poesie si legge

“L’immane farsa umana /
(non mancheranno ragioni per occuparsi /
del suo risvolto tragico) non è affar mio>>.

Subito dopo arriva Fine si Settembre in cui si scaglia contro i vacanzieri e la vita quotidiana che lui considera banale o quasi la disprezza in non e di un passato che non c’è più e se la prende contro il passare inesorabile del tempo il quale scorre con un’orrenda indifferenza a volte un po’ beffarda come ora il canto /
del rigogolo il solo dei piumati /
che farsi ascoltare in giorni come questi>>.


Questa poesia è il controcanto della Ginestra leopardiana.

Qui al posto della ginestra c’è il rigogolo che canta beffardamente il lento trascorrere del tempo su una umanità destinata alla distruzione totale. Di fronte alla siccità universale l’uomo non può fare nulla e tutti i sogni svaniscono.

Dopo poche poesie si legge
“Al mare (o quasi). In questa poesia Montale si scaglia contro il malessere e l’inquinamento del tempo e identifica il male di quel periodo nella precarietà dei valori della società italiana. Infatti proprio in questi anni l’Italia stava vivendo gli anni di piombo e tutto era in crisi ( di fatti si stava passando dalla società moderna alla società postmoderna) e tutto questo gli sembrava lontano ormai dalla sua visione di vita semplice e pulita, lenta sicura. Si andava infatti in una società in cui tutto è veloce, precario flessibile spezzettato.

E Montale conclude:
<ottimamente ma il meglio sarebbe troppo simile /
alla morte ( e questa piace solo ai giovani).

Non staremo ottimamente forse staremo meglio vicino alla morte perché questa piace ai giovani perché non la temono in quanto la vedono lontano, mentre i vecchi la temono perché la vedono vicina.
Dopo alcune poesia si arriva a “Dormiveglia” nella quale Montale ancora una volta esprime tutto il disprezzo per questa vita sulla terra. Ecco il testo.

DORMIVEGLIA.

Il sonno tarda a venire
Poi mi raggiungerà senza preavviso.
Fuori deve accadere qualche cosa
per dimostrarmi che il mondo esiste e che
i sedicenti vivi non sono ancora tutti morti.
Gli acculturati i poeti i pazzi
le macchine gli affari le opinioni
quale nauseabonda olla podrida!
E io lì dentro incrostato fino ai capelli!
Stavolta la pietà vince sul riso.


E nella penultima poesia Montale esprime ancora una volta la sua incapacità di capire la vita. Ecco i versi finali:<

se mi rileggo penso che solo l’inidentità /
regge il mondo, lo crea e lo distrugge/
per poi rifarlo sempre più spettrale/
e in conoscibile. Resta lo spiraglio /
del quasi fotografico pittore ad ammonirci /
che se qualcosa fu non c’è distanza/
tra il millennio e l’istante,
tra chi apparve e non appare,
tra che visse e chi/
non giunse al fuoco del suo cannocchiale. È poco/
e forse è tutto>>.

Segue l’ultima poesia Morgana nella quale Montale confonde sacro e profano, fede e ragione, fantasia e realtà, racconto e storia, presente e passato. Ecco i versi finali:

<Forse ne abbiamo avuto un surrogato./
La fede è un’altra. Così fu detto ma /
non è detto che il detto sia sicuro. /
Forse sarebbe bastata quella della Catastrofe,
ma non per te che uscivi per ritornarvi /
dal grembo degli Dèi>>.


Aspetti estetici di Quaderno di quattro anni.
Quaderno di quattro anni presenta la forma già nota dell’ultimo Montale, ripresenta i temi già noti di Montale sulla vita e sulla morte sul tempo e sulla memoria e sui ricordi, eppure il libro contiene poesie singole che hanno una bellezza poetica incomparabile come Vivere, Ai tuoi piedi, In negativo, Fine di settembre Dormiveglia , I Miraggi, Morgana. Tutte poesie che esprimono un senso inquietante della vita e sulla vita. Montale non è un poeta dell’amore né dell’amicizia né dà certezze, Montale esprime tutto la sua incertezza, i suoi dubbi sulla vita e sulla morte e mostra che tutto è dubbio, che tutto può essere così come forse e già vissuto.


Dunque gli aspetti estetici sono:
1) la varietà degli argomenti;
2) la sottile ironia e il sarcasmo che prevale anche con temi oscuri e dolorosi;
3) il mischiare toni scherzosi a toni dolorosi;
4) la visione della vita che oscilla tra il sublime e l’immondo / con qualche propensione per il secondo.
5) La divisione della vita tra eccelsa e domestica e la propensione a dire che la vera vita è quella dell’eccelso, mentre quaggiù si respira quella pestifera che non vale la pena di viverla

sábado, 8 de enero de 2011

Uno más

UNO MÁS

Se levantó temprano, la mañana llena de expectativas,
preparado para ponerse a escribir. Tomó tostadas, huevos y
café y se fumó unos cigarrillos pensando todo el tiempo en el trabajo
que tenía por delante, el difícil sendero a través del bosque.
El viento empujaba las nubes
por el cielo, agitaba las hojas que quedaban en las ramas
al otro lado de la ventana. Unos días más y desaparecerían,
esas hojas. Ahí había un poema, puede ser;
tendría que pensar en ello. Fue
al escritorio, dudó un buen rato, y entonces tomó
la que vendría a ser la decisión más importante
del día, algo para lo que su imperfecta vida
le había estado preparando. Apartó la carpeta de los poemas -
uno en concreto seguía aún en su cabeza tras
el sueño agitado de la noche anterior (pero, en realidd, ¿qué importa
uno más o menos? ¿Qué más da? ¿Nada va a cambiar,
no?) Tenía el día entero por delante.
Mejor limpiar primero la mesa. Tenía que ocuparse
de unas cuentas cosas, asuntos familiares que no podía
dejar para más tarde. De modo que se puso manos a la obra.
Trabajó duro todo el día -pasando del amor al odio,
a la compasión (muy poca), una sensación conocida,
también de la desesperación a la alegría.
Tuvo estallidos ocasionales de ira, luego
se calmaba, al escribir cartas, diciendo "sí" o "no" o
"depende" -explicando por qué o por qué no a personas
que apenas había visto o que nunca vería.
¿Le importaban? ¿Le importaban una mierda?
Algunas sí. Atendió también unas llamadas
e hizo otras que, a su vez, provocaron
la necesidad de hacer alguna más. Siguió así
hasta que se sintió incapaz de hablar más y prometió
llamar al día siguiente.

Por la tarde, agotado y convencido (erróneamente, por supuesto)
de que había completado una honesta jornada de trabajo,
se puso a hacer inventario y tomó nota del par
de llamadas que tendría que hacer a la mañana siguiente si
quería seguir al tanto de las cosas y si no quería
escribir más cartas, que no quería. Pero ahora,
pensó, estaba harto de todos estos asuntos, aunque
seguía igual, terminando la última carta, una que debería haber
contestado hace semanas. Levantó la vista. Casi era de noche.
El viento se había calmado. Los árboles allí seguían, despjados
de casi todas sus hojas. Pero, por fin, su mesa estaba despejada,
sin contar la carpeta de los poemas que le
costaba mirar. Metió la carpeta en un cajón, apartándola de su vista.
Es un buen sitio, un sitio seguro, y sabrá dónde está cuando
necesite descansar las manos sobre ella. !Mañana!
Hoy hizo todo lo que podía hacer.
Aún le quedaban un par de llamadas,
se le había olvidado que tenía que llamar él y
también unas cuantas notas que debía mandar a causa de las llamadas,
pero no lo iba a hacer ahora, ¿o sí? Había dejado el bosque atrás.
Podía decirse que había cumplido. Había hecho lo que tenía que hacer.
Lo que su conciencia le había pedido que hiciera. Había cumplido
con sus obligaciones y no había molestado a nadie.

Pero en aquel momento, sentado frente a su ordenada mesa,
sintió vagos remordimientos por el poema que seguía en su cabeza
y había intentado escribir por la mañana, y aquel otro
que no conseguía recordar.

Así son las cosas. Poco más se puede decir. ¿Qué se
puede decir de un hombre que prefirió hablar por teléfono
todo el día y escribir cartas estúpidas
mientras sus poemas quedaban desatendidos,
abandonados o,
peor aún, sin empezar? Ese hombre no los merece
y no deberían acudir a él de ninguna de las formas.
Sus poemas, si llega alguno más,
deberían comerlos las ratas.



Raymond Carver

jueves, 2 de septiembre de 2010

Si me necesitas, llámame

Si me necesitas, llámame
Friday, July 29, 2005
RAYMOND CARVER

Si me necesitas, llámame

Los dos habíamos estado involucrados con otras personas esa primavera, pero cuando llegó junio y terminaron las clases decidimos poner en alquiler nuestra casa en Palo Alto y trasladarnos a la costa más al norte de California. Nuestro hijo, Richard, pasaría el verano en casa de la madre de Nancy, en Pasco, Washington, donde podría trabajar y ahorrar algo de dinero para la universidad. Ella estaba al tanto de la situación en casa y ya estaba buscándole un empleo por la temporada. Había hablado con un granjero que aceptó tomar a Richard para que juntara heno y arreglara alambrados. Un trabajo duro, pero Richard estaba conforme. Lo llevé a la terminal el día después de su graduación y me senté con él hasta que anunciaron su ómnibus. Su madre ya lo había despedido llorando y le había dado una larga carta que él debía entregar a la abuela en cuanto llegara. Prefirió quedarse terminando las valijas y esperando a la pareja que alquilaría nuestra casa. Yo compré el pasaje de Richard, se lo di y me senté a su lado en uno de los bancos de la terminal. En el viaje hasta allá habíamos hablado un poco de la situación.
–¿Van a divorciarse? –había preguntado él.
–No, si podemos evitarlo –le contesté. Era un sábado por la mañana y había poco tránsito– Ninguno de los dos quiere llegar a eso. Por eso nos vamos; por eso no queremos ver a nadie durante el verano. Y por eso te enviamos con la abuela. Para no mencionar el hecho de que volverás con los bolsillos llenos de dinero. No queremos divorciarnos. Queremos estar solos y tratar de solucionar las cosas.
–¿Aún amas a mamá? Ella dice que te sigue queriendo.
–Por supuesto que la amo. Deberías saberlo a esta altura. Sólo que hemos tenido nuestra cuota de problemas, y necesitamos un poco de tiempo juntos, a solas. No te preocupes. Disfruta el verano y trabaja y ahorra un poco de dinero. Considéralo unas vacaciones de nosotros. Y trata de pescar. Hay muy buena pesca por allá.
–Y esquí acuático. Quiero aprender.
–Nunca hice esquí acuático. Haz un poco de eso también. Hazlo por mí.
Cuando anunciaron su ómnibus lo abracé y volví a decirle:
–No te preocupes. ¿Dónde está tu pasaje?
Él se palmeó el bolsillo de su campera. Lo acompañé hasta la fila frente al ómnibus, volví a abrazarlo y le di un beso en la mejilla. Adiós, papá, dijo él y me dio la espalda para que no viera sus lágrimas. Al volver a casa, nuestras valijas y cajas estaban junto a la puerta. Nancy estaba en la cocina tomando café con los inquilinos, una joven pareja de estudiantes de posgrado de matemática, a quienes había visto por primera vez en mi vida pocos días antes, pero igual les di la mano a ambos y acepté una taza de café de Nancy mientras ella terminaba con la lista de indicaciones de lo que ellos debían hacer en la casa en nuestra ausencia y adónde debían enviarnos el correo. Su cara estaba tensa. La luz del sol avanzaba sobre la mesa a medida que pasaban los minutos. Finalmente todo pareció quedar en orden, y los dejé en la cocina para dedicarme a cargar nuestro equipaje en el coche. La casa a la que íbamos estaba completamente amueblada, hasta los utensilios de cocina, así que no necesitábamos llevar más que lo esencial. Había hecho los quinientos kilómetros desde Palo Alto hasta Eureka tres semanas antes, y alquilado entonces la casa amueblada. Fui con Susan, la mujer con la que estaba saliendo. Nos quedamos en un motel a las puertas del pueblo durante tres noches, mientras recorría inmobiliarias y revisaba los clasificados. Ella me vio firmar el cheque por los tres meses de alquiler. Más tarde, en el motel, tirada en la cama con la mano en la frente, me dijo: "Envidio a tu esposa. Cuando hablan de la otra mujer, siempre dicen que es la esposa quien tiene los privilegios y el poder real, pero nunca me lo creí ni me importó. Ahora, en cambio, entiendo qué quieren decir. Y envidio a Nancy. Envidio la vida que tendrá a tu lado. Ojalá fuera yo la que va a estar contigo en esa casa todo el verano. Cómo me gustaría. Me siento tan gastada".
Yo me limité a acariciarle el pelo.
Nancy era alta, de pelo y ojos castaños, de piernas largas y espíritu generoso. Pero últimamente venía baja de espíritu y de generosidad. El hombre con el que estaba viéndose era colega mío, un divorciado de eterno traje con chaleco y pelo canoso, que bebía demasiado y a quien a veces le temblaban un poco las manos durante sus clases, según me contaron algunos de mis alumnos. Él y Nancy habían iniciado su romance en una fiesta, poco después de que ella descubriera mi infidelidad. Suena aburrido y cursi; es aburrido y cursi, pero así fue toda aquella primavera, nos consumió las energías y la concentración al punto de excluir todo lo demás. hasta que, en algún momento de abril, comenzamos a hacer planes para alquilar la casa e irnos todo el verano, los dos solos, a tratar de reparar lo que hubiera para reparar, si es que había algo. Los dos nos habíamos comprometido a no llamar, ni escribir, ni intentar el menor contacto con nuestros amantes. Hicimos los arreglos para Richard, encontramos los inquilinos para nuestra casa y yo miré en un mapa y enfilé hacia el norte desde San Francisco hasta Eureka, donde una inmobiliaria me encontró una casa amueblada en alquiler por el verano para una respetable pareja de mediana edad. Creo que incluso usé la expresión "segunda luna de miel", Dios me perdone, mientras Susan fumaba y leía folletos turísticos en el auto estacionado fuera de la inmobiliaria.Terminé de cargar las cosas en el coche y esperé que Nancy se despidiera por última vez en el porche. Yo saludé desde mi asiento y los inquilinos me devolvieron el saludo. Nancy se sentó y cerró su puerta. "Vamos", dijo y yo arranqué. Al entrar en la autopista vimos un coche con el escape suelto y arrancando chispas del pavimento. "Mira", dijo Nancy y esperamos hasta que el coche se salió de la autopista y frenó, antes de seguir viaje.Paramos en un café cerca de Sebastopol. Estacioné y nos sentamos a una mesa frente a la ventana del fondo. Pedimos sandwiches y café, yo encendí un cigarrillo mientras Nancy deslizaba el dedo por las vetas de la madera de la mesa. Entonces noté un movimiento por la ventana y al mirar en esa dirección vi un colibrí en los arbustos allá afuera. Sus alas vibraban en un borroso frenesí mientras su pico se internaba en una de las flores.
–Mira, un colibrí –dije, pero antes de que Nancy levantara la cabeza el pájaro ya no estaba.
–¿Dónde? No veo nada.
–Estaba ahí hasta hace un momento. Ahí está. No; es otro, creo. Nos quedamos mirando hasta que la camarera trajo nuestro pedido.
–Buena señal –dije–. Los colibríes traen suerte, ¿no?
–Creo haberlo oído en alguna parte –dijo Nancy–. No podría decir dónde pero sí, no nos vendría mal un poco de suerte.
–Una buena señal. Me alegro de que hayamos parado aquí.
Ella asintió, dejó pasar un largo minuto y probó su sandwich.
Llegamos a Eureka antes del anochecer. Pasamos el motel en la ruta donde había estado con Susan dos semanas antes, nos internamos por un camino que subía una colina que miraba al pueblo y pasamos frente a una estación de servicio y un almacén. Las llaves de la casa estaban en mi bolsillo. A nuestro alrededor sólo se veían colinas arboladas y praderas con ganado pastando.
–Me gusta –dijo Nancy–. No veo el momento de llegar.
–Estamos cerca –dije–. Es más allá de esa loma. Ahí –y enfilé el coche por un camino flanqueado de ligustros–. Ahí la tienes. ¿Qué opinas?
Esa misma pregunta le había hecho a Susan cuando hicimos el mismo camino para ver la casa por primera vez.
–Me gusta; es perfecta. Bajemos.
Miramos a nuestro alrededor en el jardín del frente antes de subir los escalones del porche. Abrí la puerta con la llave que traía y encendí las luces adentro. Recorrimos los dos dormitorios, el baño, el living con muebles viejos y chimenea y la cocina con vista al valle.
–¿Te parece bien?
–Me parece sencillamente maravillosa –dijo Nancy y sonrió–. Me alegra que la hayas encontrado. Me alegra que estemos aquí.
–Abrió y cerró la heladera, luego pasó los dedos por la mesada de la cocina.
–Gracias a Dios está limpia. Ni siquiera hace falta una limpieza.
–Nada. Hasta nos pusieron sábanas limpias. La alquilan así.
–Tendremos que comprar algo de leña –dijo Nancy cuando volvimos al living–. Con noches así debemos usar la chimenea, ¿no?
–Mañana. Podemos hacer unas compras también. Y recorrer el pueblo.
Nancy me miró y dijo nuevamente:
–Me alegra que estemos aquí.
–Yo también –dije y abrí los brazos y ella vino hacia mí. Cuando la abracé sentí que temblaba. Le alcé el mentón y la besé en ambas mejillas.
–Me alegra que estemos aquí –repitió ella contra mi pecho.
Durante los días siguientes nos instalamos, recorrimos las calles del pueblo mirando vidrieras y dimos largos paseos por el bosque que se alzaba atrás de la casa. Compramos provisiones, yo encontré un aviso en el diario que ofrecía leña, llamé y poco después aparecieron dos muchachos de pelo largo en una camioneta que nos dejaron una carga de aliso en el garaje. Esa noche nos sentamos frente a la chimenea y hablamos de conseguir un perro.
–No quiero un cachorro –dijo Nancy–. No quiero nada que implique ir limpiando a su paso o rescatando lo que quiere mordisquear. Pero me gustaría un perro. Hace tanto que no tenemos uno... Creo que podríamos arreglarnos con un perro aquí.
–¿Y cuando volvamos, cuando termine el verano? –dije yo y entonces reformulé la pregunta:
–¿Estás dispuesta a tener un perro en la ciudad?
–Ya veremos. Pero busquemos uno, mientras tanto. No sé lo que quiero hasta que lo veo. Revisemos los clasificados y veamos qué pasa.
Aunque los días siguientes seguimos hablando de perros y hasta señalando los que nos gustaban frente a las casas por las cuales pasábamos, no llegamos a nada y seguimos sin perro. Nancy llamó a su madre y le dio nuestra dirección y teléfono. Richard ya estaba trabajando y parecía contento, dijo la madre. Y ella se sentía bien. Nancy le contestó:
–Nosotros también. Esto es como una cura.
Un día íbamos por la ruta frente al océano y, desde una loma, vimos unas lagunas que formaban los médanos muy cerca del mar. Había gente pescando en la orilla y en un par de botes. Frené a un costado de la ruta y dije:
–Vamos a ver qué están pescando. Quizá valga la pena conseguirnos unas cañas y probar.
–Hace años que no vamos de pesca. Desde que Richard era chico, aquella vez que fuimos de campamento cerca del monte Shasta, ¿recuerdas?
–Me acuerdo. Y también me acuerdo de cuánto extraño pescar. Bajemos a ver qué están sacando.
–Truchas –dijo uno de los pescadores–. Trucha arcoiris y algún que otro salmón. Vienen en el invierno, cuando el mar horada los médanos. Y, con la primavera, cuando se cierra el paso, quedan atrapados. Es buena época, ésta. Hoy no pesqué nada pero el domingo saqué cuatro. De lo más sabrosos. Dan una batalla tremenda. Los de los botes creo que sacaron algo hoy, pero yo todavía no.
–¿Qué usan de carnada? –preguntó Nancy.
–Lo que sea. Lombrices, marlo de choclo, huevos de salmón. Basta tirar la línea y dejarla reposar hasta el fondo. Y estar atento.
Nos quedamos un rato pero el hombre no sacó nada y los de los botes tampoco. Sólo iban y venían por la laguna.
–Gracias. Y suerte –dije al fin.
–Que tengan suerte ustedes también. Los dos –contestó el hombre.
A la vuelta paramos en una casa de artículos deportivos y compramos unas cañas baratas, unos rollos de tanza y anzuelos y carnada. Sacamos una licencia también y decidimos ir de pesca la mañana siguiente. Pero esa noche, después de la cena y de lavar los platos y poner unos leños en la chimenea, Nancy dijo que no iba a funcionar.
–¿Por qué dices eso? ¿A qué te refieres?
–No va a funcionar, enfrentémoslo –dijo ella sacudiendo la cabeza–. No quiero ir a pescar y no quiero un perro. Creo que quiero ir a lo de mi madre y estar con Richard. Sola. Quiero estar sola. Extraño a Richard -dijo y empezó a llorar–. Es mi hijo, es mi bebé, y está creciendo y pronto se irá. Y lo extraño. Lo extraño.
–¿También extrañas a Del, a Del Schraeder, tu amante? ¿Lo extrañas a él también?
–Extraño a todo el mundo. A ti también. Hace mucho que te extraño. Te he extrañado tanto durante tanto tiempo que te he perdido. No sé cómo explicarlo mejor. Pero sé que te perdí. Ya no me perteneces.
–Nancy –dije yo.
–No, no –dijo ella y negó con la cabeza.
Sentada en el sofá de frente al fuego siguió negando y negando y luego dijo:
–Voy a tomar un avión para allá mañana. Cuando me haya ido puedes llamar a tu amante.
–No voy a hacer eso. No tengo la menor intención de hacer eso.
–Sí, lo harás. Vas a llamarla en cuanto me haya ido.
–Y tú vas a llamar a Del –dije. Y me sentí una basura por decirlo.
–Haz lo que quieras –dijo ella secándose las lágrimas con la manga–. Lo digo en serio. No quiero parecer una histérica, pero me iré mañana. Mejor me iré a acostar ahora; estoy exhausta. Lo lamento. Lo lamento mucho, por los dos. Pero no vamos a lograrlo. Ese pescador, hoy. Nos deseó suerte a los dos. Yo también nos deseo suerte. Vamos a necesitarla.
Entonces se encerró en el baño y dejó correr el agua. Yo salí a los escalones del porche y me senté a fumar un cigarrillo. Estaba oscuro y silencioso, apenas se veían las estrellas en el cielo. Jirones de niebla del océano ocultaban el valle y el pueblo allá abajo. Me puse a pensar en Susan. Oí que Nancy salía del baño y oí que se cerraba la puerta del dormitorio. Entonces entré y puse otro leño en la chimenea y esperé hasta que se avivara el fuego. Luego fui al otro dormitorio. Abrí la colcha y me quedé mirando el estampado floral de las sábanas. Me di una ducha, me puse el pijama y volví frente a la chimenea. La niebla ya llegaba a las ventanas del living. Fumé mirando el fuego y, cuando volví a mirar por la ventana, creí ver algo que se movía en la niebla.Me acerqué a la ventana. Un caballo estaba pastando en el jardín, entre la niebla. Alzó la cabeza para mirarme y volvió a su tarea. Vi otro cerca del auto. Encendí la luz del porche y me quedé mirándolos. Eran caballos grandes, blancos, de largas crines, seguramente de alguna granja de los alrededores con algún alambrado caído y vaya a saberse cómo habían llegado hasta nuestra casa. Parecían estar disfrutando inmensamente su escapada. Pero se los notaba un poco nerviosos también: podía verles el blanco de los ojos desde la ventana. Sus orejas iban y venían al ritmo de sus mordiscos. Un tercer caballo apareció entonces y luego un cuarto, todos blancos, pastando en nuestro jardín. Fui al dormitorio a despertar a Nancy. Tenía los ojos enrojecidos y los párpados hinchados, y se había puesto ruleros y había una valija abierta a los pies de la cama.
–Nancy, tienes que venir a ver esto. No vas a creerlo. Vamos, levántate.
–¿Qué pasa? Me estás lastimando. Qué pasa.
–Querida, tienes que ver esto. No voy a lastimarte. Perdona si te asusté. Pero tienes que levantarte y venir a ver esto.
Pocos minutos después estaba a mi lado en la ventana, atándose la bata.
–Dios, son hermosos. ¿De dónde vienen? Qué hermosos son.
–De alguna granja vecina, supongo. Voy a llamar al sheriff para que ubique al dueño. Pero quería que los vieras antes.
–¿Morderán? Me gusta acariciar a aquél, el que acaba de mirarnos.
–No creo que muerdan. No parecen esa clase de caballos. Pero ponte algo encima si vamos a salir. Hace frío afuera.
Me puse la campera encima del pijama y esperé a Nancy. Abrí la puerta y salimos y nos acercamos caminando hasta ellos. Todos levantaron sus cabezas. Uno resopló y retrocedió unos pasos, pero volvió a tironear del pasto y mascar como los demás. Apoyé mi mano entre sus ojos y le palmeé los flancos y dejé que su hocico me oliera. Nancy estaba acariciando las crines de otro, mientras murmuraba: "¿De dónde vienes, caballito? ¿Dónde vives y qué haces aquí en medio de la noche?", mientras el animal movía su cabeza como si entendiera.
–Será mejor que llame al sheriff –dije.
–Todavía no. Un rato más. Nunca veremos algo igual. Nunca, nunca tendremos caballos en nuestro jardín. Un rato más, Dan.
Poco después, mientras Nancy seguía yendo de uno a otro, palmeándolos y acariciándolos, uno de los caballos comenzó a rumbear hacia la ruta, más allá de nuestro auto y supe que era momento de llamar.
En pocos minutos vimos las luces de dos patrulleros en la niebla y poco después llegó una camioneta con un acoplado para caballos, de la que bajó un tipo con gamulán, que se acercó a los caballos y necesitó un lazo para lograr que entrara el último en el acoplado.
–¡No le haga daño! –dijo Nancy.
Cuando se fueron volvimos al living y yo dije que iba a hacer café y pregunté a Nancy si quería una taza.
–Te diré lo que quiero –dijo ella–. Me siento bien, Dan. Me siento como borracha, como... No sé cómo, pero me gusta. No quiero dormir; no podría dormir. Haz un poco de café y a ver si encuentras algo de música en la radio y puedes avivar el fuego.
Así que nos sentamos frente a la chimenea y bebimos café y escuchamos viejas canciones por la radio y hablamos de Richard y de la madre de Nancy y bailamos.
Ninguno aludió en ningún momento a nuestra situación. La niebla seguía allí, detrás de las ventanas, mientras hablábamos y éramos gentiles el uno con el otro. Hasta que, cerca del amanecer, apagué la radio y nos fuimos a la cama e hicimos el amor.
Al mediodía siguiente, luego de que ella terminara su valija, la llevé al aeródromo desde donde volaría a Portland y de allí haría el trasbordo que la dejaría en Pasco por la noche.
–Saluda a tu madre de mi parte. Y dale un abrazo a Richard. Y dile que lo extraño. Y que lo quiero.
–Él también te quiere. Lo sabes. En cualquier caso, lo verás después del verano. –Yo asentí.
–Adiós –dijo ella. Y me abrazó. Yo le devolví el abrazo. Me alegro por anoche. Los caballos. La charla. Todo. Ayuda. No lo olvidaremos –y empezó a llorar.
–Escríbeme, ¿quieres? –dije yo–. Nunca pensé que fuera a pasarnos. En todos estos años. Nunca lo pensé. Ni un sola vez. No a nosotros.
–Te escribiré. Mucho. Las cartas más largas que hayas visto desde las que me enviabas en el secundario.
–Las estaré esperando.
Ella me miró largamente y me acarició la cara. Entonces me dio la espalda y se alejó por la pista rumbo al avión. Ve, mi más querida, y que Dios esté contigo. Ella abordó el avión y yo me mantuve en mi lugar hasta que se encendieron los motores y la nave empezó a carretear por la pista y despegó sobre la bahía y se convirtió en una mancha en el horizonte. Volví a la casa, estacioné el coche y miré las huellas que habían dejado los caballos la noche anterior, los trozos de pasto arrancado y las marcas de herraduras y los montones de bosta aquí y allá. Entonces entré en la casa y, sin sacarme el saco siquiera, levanté el teléfono y marqué el número de Susan.




Raymond Carver nació en Clatskanie, Oregón (EEUU). Además de libros de poemas, publicó cinco volúmenes de relatos que lo acreditaron como uno de los mejores escritores norteamericanos de la segunda mitad del siglo XX: ¿Quieres hacer el favor de callarte, por favor? (1976), De qué hablamos cuando hablamos de amor (1981), Catedral (1983), Tres rosas amarillas (1988), y Si me necesitas, llámame (2001). Los libros de Carver están formados por relatos cortos que reflejan los dramas aparentemente más triviales, las catástrofes silenciosas de la gente más común, y que poseeen la capacidad de provocar una impresión indeleble . En 1988, cuando estaba en su mejor momento (ya que había dejado de beber definitivamente) y tenía una pareja estable con la poeta Tess Gallagher y se le detectó un cáncer de pulmón. Murió en Port Angeles, Washington.

jueves, 28 de enero de 2010

sangre y otros poemas

RAYMOND CARVER



Raymond Carver, escritor y poeta estadounidense, nació en 1939 en Clatskanie, Oregón. Conocido como uno de los mejores escritores norteamericanos de relatos breves. Pero no conocer sus poemas sería no conocer a Carver del todo.

Como él mismo dijo, su obra poética la consideraba más esencial y el medio con el mejor expresaba sus sentimientos.




“Sus poemas son la corriente espiritual de la que Carver extrajo sus cuentos”. Tess Gallagher




SANGRE

Éramos cinco a la mesa de juego
sin contar al croupier
y su ayudante. El hombre
de junto a mí tenía los dados
en la mano.
Se sopló los dedos, dijo:
¡Vamos, pequeños! Y se inclinó
sobre la mesa para tirar.
En ese momento, una sangre roja brotó
de su nariz, salpicando
el verde paño de fieltro. Soltó
los dados. Se echó hacia atrás pasmado.
Y luego aterrorizado cuando la sangre
corrió por su camisa abajo. ¡Dios mío!
¿qué me está pasando?
gritó. Se agarró a mi brazo.
Oí funcionar los motores de la Muerte.
Pero en aquella época yo era joven,
y estaba borracho, y quería jugar
.
No tenía por qué escuchar.
Así que me largué. No me volví ni siquiera,
ni encontré esto dentro de mi cabeza, hasta hoy.






LA CAÑA DE PESCAR DEL AHOGADO

Al principio no la quería usar.
Luego pensé, no, me revelará
secretos y me dará suerte
que es lo que entonces necesitaba.
Además, me la dejó a mí
para que la usase cuando fue a bañarse aquella vez.
Inmediatamente después, conocí a dos mujeres.
Una adoraba la ópera y la otra
era una borracha que había pasado un tiempo
en la cárcel.
Ligué con una
y empecé a beber y a reñir sin parar.
¡El modo en que esta mujer podía cantar y seguir bebiendo!
Fuimos directamente al fondo.





Utiliza una técnica aparentemente sencilla donde las sensaciones, las personas, las historias… parecen estar en suspenso, sugeridas, sin embargo, logra que impacten y queden grabadas en la mente del lector.






BAJO UNA LUZ MARINA CERCA DE SEQUIM, WASHINGTON


Empiezan los verdes campos. Y las altas, blancas
granjas después de los charcos de la marea,
y aquellos pequeños cangrejos
listos para echar a correr, o darse la vuelta, si
levantábamos la roca debajo de la que vivían. La languidez
de aquella carretera del campo. Hablando de París,
nuestro París. Y luego encuentras ese sitio en el libro
y me lees la vida de Anna Akhmatova allí con Modigliani.

Sentados en un banco de los jardines de Luxemburgo
bajo su enorme sombrilla negra
recitándose a Verlaine el uno al otro
. Los dos
“todavía no alcanzados por el futuro”. Cuando
allá en el prado vimos
a un joven desnudo de medio cuerpo para arriba
y con los pantalones remangados,
como un antiguo remero. Nos miró sin curiosidad.
Se quedó allí observándonos indiferente.
Luego nos dio la espalda y siguió con su trabajo.

Mientras pasábamos como una hermosa guadaña negra
por aquel paisaje perfecto.


Poemas que hablan de soledad, alcohol, falta de dinero, desempleo… temas que conocía bastante bien.


EN BUSCA DE TRABAJO

Siempre he querido trucha de montaña
de desayuno.


De repente, encuentro un sendero nuevo
a la cascada.

Empiezo a tener prisa.
Despierta,

dice mi mujer,
estás soñando.

Pero cuando intento levantarme,
la casa se ladea.

¿Quién está soñando?
Es mediodía, dice ella.

Mis zapatos nuevos esperan junto a la puerta,
relucientes.




Proveniente de una familia problemática, padre alcohólico y una madre no muy equilibrada. Acabó de empleo en empleo y mal pagados, casándose a los 18 años, matrimonio que acabó en ruptura, alcoholismo… esto fue su vida durante años, por lo que sus experiencias más duras unidas a su talento y sensibilidad, se convirtieron en los principales nutrientes de su obra.



AMENAZA

Hoy una mujer me señaló y dijo algo en hebreo.
Luego se echó el pelo atrás, tragó saliva
y desapareció. Cuando volví a casa,
tembloroso, tres carros estaban junto a la puerta con
uñas asomando entre las sacas de trigo.



Para Carver además, escribir poemas era una necesidad vital. Comenzó su carrera como Poeta, sin embargo lo que le proporcionó mayor reconocimiento fueron sus relatos. A pesar de eso, jamás se dejó llevar por las posibles imposiciones que caben esperar y siempre escribió lo que quiso, especialmente al final de su vida, y eligió la Poesía.




DOS MUNDOS

En el aire denso
con olor a azafrán,

sensual olor a azafrán,
miro cómo desaparece el cielo limón,

un mar que cambia de azul
a negro aceituna.

Miro el relámpago que salta desde Asia como
dormido,

mi amor se agita y respira y
se vuelve a dormir,

parte de este mundo y sin embargo
parte de aquél.


En su último libro, una recopilación de poemas titulado “Un sendero nuevo a la cascada”, rinde homenaje a Chéjov, a quien incluye en la obra haciéndola parte de la misma como anteriormente ya hizo con el libro de relatos “Tres rosas amarillas”.
Parecía existir cierto paralelismo entre Chéjov y Carver, quizás es muy acertado llamarle “El Chéjov americano” como hicieron algunas revistas.

También sentía una gran admiración por Antonio Machado, a quien dedicó el siguiente poema:


ONDAS DE RADIO



La lluvia ha cesado, y la luna ha salido.
No entiendo nada de las ondas de radio.
Pero creo que se transmiten mejor justo
después de llover, cuando el aire está húmedo.
En cualquier caso, ahora puedo coger Ottava, si quiero,
o Toronto. Últimamente, de noche, me sorprendo
ligeramente interesado por la política canadiense
y sus asuntos internos. Es verdad. Pero normalmente
lo que buscaba era sus emisoras con música. Me siento
aquí en la butaca y escucho, sin tener nada que hacer,
o pensar. No tengo televisor, y dejé de leer
los periódicos. De noche pongo la radio.

Cuando escapé aquí trataba de alejarme
de todo. Especialmente de la literatura.

De lo que ella entraña, y de lo que trae a rastras.
Hay en el alma un deseo de no pensar.
De estar quieto. Emparejado con éste,
un deseo de ser estricto, sí, y riguroso.
Pero el alma también es una afable hija de puta
no siempre de fiar. Y olvidé eso.

Escuché cuando dijo: Mejor cantar a lo que se ha ido
y nunca volverá que a lo que aún sigue
con nosotros y estará con nosotros mañana. O no.
Y si no, también está bien.
Tampoco importa demasiado, dijo, si un hombre nunca canta.

Esa es la voz que escuché.
¿Puede imaginarse que alguien piense cosas así?

¡Qué absurdo!
Pero tengo estas estúpidas ideas de noche
cuando me siento en la butaca y oigo la radio.
Entonces, Machado, ¡su poesía!
Era como un hombrecillo mayor que se vuelve
a enamorar. Una cosa digna de observar,
y embarazoso, además.

Y llevo tu libro a la cama conmigo
y me duermo con él a mano. Un tren pasó
en mis sueños una noche y me despertó.
Y lo primero que pensé, el corazón acelerado
allí en el dormitorio a oscuras, fue esto:
Todo es perfecto, Machado está aqui.
Entonces me volví a dormir.
Hoy llevé tu libro conmigo cuando salí
a dar mi paseo. “¡Presta atención!” -decías,

cuando alguien preguntó qué hacer con su vida.
Conque miré alrededor y tomé nota de todo.
Luego me senté al sol, en mi sitio
de junto al río desde donde puedo ver las montañas.
Y cerré los ojos y escuché el sonido
del agua. Luego los abrí y me puse a leer
«Abel Martín».

Esta mañana pensé mucho en ti, Machado.
Y espero, incluso cara a lo que sé de la muerte,
que recibirás el mensaje que pretendo enviarte.

Pero está bien aunque tú no lo recibas. Que duermas bien.
Descansa. Antes o después espero que nos veamos.
Y entonces yo podré decirte estas cosas directamente.




Cuando parecía irle todo bien, recuperado de su alcoholismo, con una estupenda relación con su mujer y editora Tess Gallagher, éxito profesional… en 1987 le diagnosticaron cáncer de pulmón.

A pesar del temido e irremediable final nunca dejaron de hacer planes de futuro, Carver incluso, al igual que hizo Chéjov miraba los horarios de trenes que partían desde su ciudad, y es que una parte de él esperaba librarse de la enfermedad.

Escribió en su diario: “Cuando ya no hay esperanza, lo único cuerdo que queda es aferrarse a unos frágiles asideros”.

En 1988 murió a la edad de 50 años, aún joven para desaparecer y en su mejor momento, pero consiguió lo que más ansiaba:







ÚLTIMO FRAGMENTO

¿Y conseguiste lo que
querías de esta vida?
Lo conseguí.
¿Y qué querías?
Considerarme amado, sentirme
amado en la tierra.
Sala de autopsias


En esos tiempos yo era joven y la fuerza
de diez hombres habitaba mi cuerpo,
para lo que mandaran.
Trabajaba en el hospital en el turno noche
y una de mis responsabilidades
cuando el forense terminaba sus tareas
era la de limpiar la sala de autopsias.
Ellos no tenían horario, algunas veces
terminaban temprano, otras demasiado tarde.
Y para que el personal de limpieza no se aburriera
dejaban objetos olvidados en la mesa de trabajo.
Un pequeño bebé quieto como una piedra
y más frío que la nieve. Un negro corpulento de pelo blanco
con el pecho partido al medio y los órganos vitales
flotando en una bandeja a un costado de su cabeza.
Yo siempre estaba solo, ahí. La manguera derramaba agua.
Las luces colgadas del techo encandilaban.
Una vez dejaron sobre la mesa una pierna,
una pierna de mujer de formas perfectas
y excesiva palidez.
Yo sabía para qué era la pierna,
en ocasiones los había observado.
A pesar de eso me quedé sin respiración.

De madrugada en casa mi mujer
me decía “Dulce, todo va a salir bien. Podemos hacer cambios,
vivir de otra manera”. Pero no es tan fácil.

Ella agarraba mi mano entre las suyas, con fuerza,
yo me reclinaba en el sillón y cerraba los ojos.
Yo pensaba en… cualquier cosa. No sabía en qué.
Yo dejaba que ella llevara mi mano a sus tetas.
Yo abría los ojos y miraba el cielorraso o el piso,
qué importa…
Mis dedos se arrastraban hacia su pierna, tibia y bien formada,
que ante la más suave caricia temblaba y se levantaba delicadamente.
Mi mente estaba confundida y cómo decirlo ¿sacudida?
No pasaba nada. Todo estaba pasando.

La vida era una piedra
que lentamente se iba gastando
y afilando.






El don de la ternura

Tarde en la noche. Comenzó a nevar.
Los copos húmedos caían
más allá del cristal de las ventanas,
surcando el aire frío
ocultaban el resplandor de la ciudad.
Observamos un rato la tormenta
sorprendidos, felices, satisfechos
de estar allí y no en otro sitio
.
Puse un leño en el hogar,
me pediste que regulara
el tiro de la chimenea.
Nos metimos en la cama.
Cerré mis ojos, de inmediato,
pero
por razones que desconozco
antes de dormirme
el aeropuerto de Buenos Aires
atravesó mi memoria.

Recordé esa tarde,
la temprana oscuridad, las sombras.

Reconstruí la escena:
regresé a ese paisaje desolado
donde flotaba un silencio sepulcral
interrumpido únicamente por el rugido
de las turbinas del avión que carreteaba
lentamente bajo una lluvia de granizo,
tan fino que lo confundimos con nieve.

En las ventanas de los edificios no había luz.
Un lugar realmente solitario.
Sólo pasillos abandonados, hangares vacíos.

No vimos a una sola persona.
“Es como si todo estuviera de luto,”
fue tu comentario.


Abrí mis ojos.
El ritmo de tu respiración
me dijo que estabas profundamente dormida.
Te cubrí el cuerpo con uno de mis brazos.
Mis evocaciones
me trasladaron de la Argentina
a un departamento en el que pasé
un tiempo de mi vida, en Palo Alto.

No nieva en esa ciudad,
pero el departamento disponía
de un amplio ventanal desde donde
podríamos haber mirado por horas
la autopista que rodea la bahía.
La heladera estaba al lado de la cama.
Las noches calurosas, sofocantes,

cuando me despertaba con la garganta seca
sólo tenía que estirar el brazo, abrir la puerta

y dejarme guiar por la luz interior
hasta el botellón con agua refrescante.

En el baño un pequeño calentador eléctrico
descansaba cerca del lavatorio.
Todas las mañanas mientras me afeitaba
calentaba agua en una vieja sartén,
el frasco de café instantáneo,
siempre a mano, en el botiquín.


Un mañana me senté en la cama
vestido, recién afeitado,
bebiendo sorbos de café caliente
intentando olvidar planes,
proyectos, todas esas cosas
que había decidido realizar.
Finalmente disqué el número
de Jim Houston que vive en Santa Cruz,
le pedí prestados 75 dólares.

Me contestó que estaba sin fondos.
Su mujer había viajado a México
por unos días y él ya no tenía dinero,
no llegaba a fin de mes.

“Está bien”, le dije. “Te entiendo.”
Y así era,
no necesité explicaciones.

Hablamos un poco más y cortamos.
Terminé el café cuando el avión
comenzaba a elevarse en mi recuerdo
y yo desde la ventanilla miraba
por última vez las luces de Buenos Aires.

Después cerré los ojos
iniciando el largo regreso.


Esta mañana hay nieve por todos lados.
Hablamos sobre la tormenta.
Me comentás que no dormiste bien.

Te digo que yo tampoco.
Tuviste una noche terrible. “Yo también.”

Estamos tranquilos el uno con el otro,
nos asistimos tiernamente
como si comprendiéramos nuestro estado de ánimo,
las mutuas inseguridades.
Creemos adivinar los sentimientos del otro,
no podemos, por supuesto, nunca podremos.
No tiene importancia.

En realidad es la ternura la que me interesa.
Ése es el don que me conmueve, que me sostiene,
esta mañana, igual que todas las mañanas.






El caballete

He perdido el tiempo esta mañana,
y estoy profundamente avergonzado.

Ayer noche me acosté pensando en mi padre.
En el riachuelo donde pescábamos -Butte Creek-
cerca del lago Almanor. El agua me arrullaba en sueños.
En el sueño, estaba por todas partes
y yo no podía levantarme ni moverme.
Pero cuando desperté esta mañana temprano
fui al teléfono. Aunque
el río fluía allá abajo en el valle,
en la pradera, corriendo entre los tréboles.

Pinos se alzaban a ambos lados de la pradera.
Y yo estaba allí.
Un niño sentado en un caballete de madera,
mirando hacia abajo.
Viendo a mi padre beber agua con las manos.
Luego dijo: "El agua está tan buena.
Me gustaría poder llevarle a mi madre un poco de este agua"

Mi padre todavía la quería, aunque estaba muerta
y él había pasado mucho tiempo lejos de ella.

Tuvo que esperar algunos años más
hasta que pudo ir a donde estaba. Pero él quería
a esta región donde se encontró a sí mismo. El Oeste.
Durante treinta años la tuvo en el corazón,
y luego la dejó ir. Se acostó una noche
en un pueblo del norte de California
y no despertó. ¿Hay algo más sencillo?


Me gustaría que mi vida y mi muerte fueran tan sencillas.
De modo que cuando despierte
una hermosa mañana como ésta,
después de estar en algún sitio
donde quería estar toda la noche,
algún sitio importante, pudiera moverme del modo más natural
y sin pensar en ello, hasta mi mesa de trabajo.

Digamos que lo hice, del modo más sencillo que he descrito.
De la cama a la mesa de trabajo de la infancia.

Desde aquí no hay mucho hasta el caballete.
Y desde el caballete podría mirar hacia abajo
y ver a mi padre cuando necesitara verlo.
Mi padre bebiendo aquel agua fresca. Mi dulce padre.
El río, sus praderas, y pinos, y el caballete.
Ese. Donde estuve una vez.

Me gustaría hacer eso
sin tener que disculparme ante mí mismo por ello.
Ni sentirme mal por interesarme por cosas menos importantes.
Sé que es hora de cambiar de vida.

Esta vida -con sus complicaciones
y llamadas telefónicas- es indecente,
y una pérdida de tiempo.


Quiero hundir mis manos en agua fresca.
Del modo en que lo hizo él. Otra vez y otra vez y otra.



La inclusión de Raymond Carver en Poéticas es una atención de

Biblioteca Virtual BEAT 57

http://www.galeon.com/poemascarver/poemas.html

ALGO ESTA PASANDO

Algo me está pasando
si le creo a mis
sentidos no es solamente
querida otra distracción
sigo atado a mi vieja piel
las ideas puras y los anhelos desmedidos
a toda costa
una limpia y saludable polla
pero mis pies han comenzado
a decirme cosas
de sí mismos
sobre su nueva relación con
mis manos ojos corazón y pelo

Algo me está pasando
te preguntaría si pudiera
has sentido alguna vez algo parecido
pero tú estás tan lejos
esta noche que no creo
que escucharas además
mi voz se ha visto afectada también

Algo me está pasando
no te sorprendas si
caminando algún día de pronto en este brillante
sol mediterráneo tú me miras
de largo y descubres
una mujer en mi sitio
o peor
un extraño de cabello blanco
escribiendo un poema
alguien que no puede ya formar palabras
que está simplemente moviendo sus labios
tratando
de decirte algo





EL CONTACTO

Marquen al hombre con el que estoy.
El pronto va a perder
su mano izquierda, la nariz, las
bolas y su hermoso bigote.

La tragedia está por todos lados
Oh Jerusalem.

El levanta su taza de té.
Esperen.
Entramos al café.
El levanta su taza de té.
Nos sentamos juntos.
El levanta su taza de té.
Ahora.

Asiento.

¡Caras!

Sus ojos, cruzados,
caen lentamente de su cabeza.





SEMILLAS


PARA CHRISTI

Intercambio nerviosas miradas
con el hombre que le vende
semillas de sandía a mi hija.

La sombra de un pájaro pasa
sobre nuestras manos.

El vendedor levanta el látigo y
se apura tras de su viejo caballo
rumbo a Beersheba.

Me ofreciste las semillas que escogí.
Ya has olvidado al hombre
el caballo
las sandías mismas y
algo invisible fue la sombra
entre el vendedor y mí mismo.

Acepto tu don aquí
sobre el camino seco.
Alargo la mano para recibir
tu bendición.





EL HOMBRE DE AFUERA


Hubo siempre el adentro y
el afuera. Adentro, mi mujer,
mi hijo e hijas, ríos
de conversación, libros, suavidad
y cariño.

Pero entonces una noche afuera
de la ventana del cuarto alguien-
algo, respiraba, se arrastraba.
Desperté a mi mujer y aterrorizado
temblé en sus brazos hasta la mañana.

¡Ese espacio fuera de la ventana
de mi cuarto! Las pocas flores que crecen
ahí pisoteadas, las colillas
de Camel aplastadas.
No estoy imaginando cosas.

La noche siguiente y la siguiente
ocurrió, y desperté a mi mujer
y otra vez ella me consoló y
otra vez frotó mi pierna entumida
por el miedo y me tomó en sus brazos.

Pero entonces yo comencé a demandar más
y más de mi mujer. Con pena ella
revisababa el piso del cuarto de arriba a abajo,
yo la dirigía como a una carretilla cargada,
el conductor y su carrito.

Finalmente, esta noche, toco a mi mujer despacio
y ella se incorpora ansiosa
y preparada. Las luces prendidas, desnudos, nos sentamos
frente a la cómoda y miramos frenéticos
el cristal. Tras de nosotros dos labios,
el reflejo de un cigarrillo encendido.














Poemas de Raymond Carver
Las traducciones de los poemas de Raymond Carver que ofrece esta página deben tener un uso exclusivamente privado. Los textos gozan de los derechos de autor reconocidos generalmente.

Carver by Moore.

Poemas de Raymond Carver

Versiones de Esteban Moore





Desocupado

Los que eran mejores que nosotros
vivían cómodamente en casas recién pintadas
con inodoros a botón en todos los baños.
Manejaban autos de modelo y marca
reconocibles.
Los que no tenían trabajo, estaban apenados,
no les iba bien.
Sus autos extraños estaban estacionados
sobre cajones, ‘al fondo’ de casas polvorientas,
donde se amontonaban infinidad de objetos inútiles
.
Los años pasan y todo y todos son reemplazados.
Existen siempre, es lo que dicen, nuevas oportunidades.
Pero, para decir la verdad,
a mí nunca me gustó el trabajo
.
Mi objetivo era permanecer desocupado.
Ése era mi mérito.
Me gustaba la idea de sentarme en una silla,
hora tras hora, frente a la casa, sin hacer nada
con un sombrero sobre mi cabeza y tomando una gaseosa.

¿Qué hay de malo en eso?
Fumar, escupir de vez en cuando.
Tallar madera con mi cuchillo.
¿Hay daño o maldad en esto?

En ocasiones salgo con mi perro a perseguir conejos.
Tenés que hacerlo alguna vez.
A veces levanto a un chico gordo y rubio como yo,
diciéndole: ‘‘¿de dónde te conozco?’’.
Nunca digas: ‘‘¿Que querés ser cuando seas grande?’’





Naturalmente


Un claro en las nubes.
El macizo perfil de las montañas azules
que recortan el horizonte.
El amarillo apagado de los rastrojos.
El río muy negro.
¿Qué estoy haciendo en este lugar,
solo y cargado de culpas?
Me pregunto.

Sigo comiendo las frambuesas de la fuente.
Sin hacerme problemas. Si estuviera muerto,
me recuerdo, no podría saborearlas.
Nada es tan simple.
Sí, todo es así de simple. Naturalmente.





Hijo


Esta mañana me despertó una voz
que regresaba desde mi infancia.
La voz dice: ‘‘despertate’’,
y yo salto de la cama.
Es extraño, toda la noche, en mis sueños
yo busqué ‘ese’ bendito lugar
donde mi madre pueda vivir y ser feliz.
‘‘Si querés que enloquezca,
está bien, si ése no es tu deseo,
por favor sacame de acá’’, repetía la voz.
Me reconozco único culpable.
Yo la mudé a esta ciudad que odia.
Yo alquilé la casa que odia, rodeada
de vecinos que odia, llena de muebles
que odia.
‘‘¿Por qué no me diste la plata para que yo la gastara?’’
‘‘Quiero volver a California, ¡ahora!’’, grita la voz.
‘‘Voy a morir si me quedo’’. ‘‘¿Vos querés que muera?’’
gime la voz.


Esta mañana en el mundo,
no existen respuestas a esta pregunta
ni a ninguna otra.

Suena el teléfono y suena, no deja de sonar.
No me acerco al aparato, tengo miedo de oír una vez más,
la pronunciación de mi nombre.
El mismo nombre que mi padre escuchó durante 53 años.
Antes de abandonarnos en busca de su recompensa.
Murió después de decir: ‘‘llevá estas cosas a la cocina, hijo’’.
La palabra hijo emitida desde sus labios,
tembló en el aire para que todos la oyeran.




La lapicera

La lapicera que no faltaba a la verdad,
por todas sus preocupaciones
terminó dentro del lavarropas.
Salió una hora más tarde y la tiraron
al secarropas junto con un par de ‘jeans’ viejos
y una camisa a cuadros.
Los días pasaron y ella permaneció
recostada tranquilamente sobre el escritorio
que estaba frente a la ventana.
Ella pensaba que estaba totalmente agotada.
Sin convicciones. Sin voluntad.
Una mañana, poco antes del amanecer,
recuperó antiguas fuerzas
y escribió:
‘‘Los campos húmedos duermen
bañados por la luz de la luna’’.

Después de este esfuerzo
se quedó muy quieta,
nuevamente vacía, su utilidad
terminada.

Él la sacudió,
la golpeó sobre la tapa del escritorio.
La dejó a un lado.
Abandonó las pretensiones de hacerla trabajar
o casi todas.
Sin embargo
ella realizó un nuevo esfuerzo,
apeló a sus últimas reservas.
Esto es lo que escribió:
‘‘Un viento suave, y más allá del ventanal
los árboles flotan en el dorado aire de la mañana’’.


Él trató de hacerla escribir algo más,
pero eso fue todo. La lapicera
dejó de escribir, definitivamente.
Él la puso con otras cosas inservibles
en el incinerador.
El tiempo transcurrió, días o meses,
y fue otra lapicera
una que todavía no había demostrado nada
la que con facilidad escribió:
‘‘La oscuridad se posa en las ramas.
Quedate muy quieto, no salgas de la casa,

quedate muy quieto...’’






Durmiendo

Él durmió sobre sus manos.
Sobre una roca.
Sobre sus pies,
sobre los pies de algún desconocido.
Él durmió en micros, en trenes, en aviones.
Se durmió estando de guardia.
Se durmió a un costado de la ruta.
Se durmió apoyado en una bolsa de manzanas.
Él durmió en un baño público.
En un galpón.
En el estadio.
Durmió en un Jaguar descapotable
y en la caja de una camioneta.
Durmió en los teatros.
En la cárcel.
Sobre los barcos.
Él durmió en casillas deshechas y en una ocasión
en un inmenso castillo.
Soportó dormido las frías gotas del agua de lluvia
y los ardientes rayos del sol.
Durmió sobre caballos.

Se durmió sobre sillas.
Él durmió en iglesias, en hoteles de lujo.
Él durmió bajo techos extraños toda su vida.
Ahora él duerme cubierto por la tierra.
Duerme y seguirá durmiendo.
Igual que un rey antiguo.





El rasguño

Me desperté con una mancha de sangre reseca
pegoteada sobre uno de mis párpados. Un arañazo,
profundo, cruza transversalmente las arrugas de mi frente.
Sin embargo, últimamente, he estado durmiendo solo.
Y me pregunto por qué un hombre, incluso en un mal sueño,
alzaría la propia mano para lastimarse la cara.

Esta mañana pretendo responder esta pregunta
y otras similares, mientras observo en silencio
mi rostro que se refleja en los cristales de la ventana.



Una tarde

Mientras escribe, sin observar el océano,
siente entre sus dedos
el temblor de la pluma de su lapicera.
La marea se retira arrastrando
pequeñas piedras, restos de vida marina.
Todo esto no tiene nada que ver, no,
con el origen de su emoción. No.
Su corazón se acelera porque ella
en ese instante ha decidido entrar
completamente desnuda en la habitación.
Somnolienta, por un momento no puede imaginar
dónde está. Se dirige al baño. Sacude su cabellera.
Se sienta en el inodoro con los ojos cerrados,
la cabeza inclinada; las piernas extendidas, abiertas.
No ha cerrado la puerta del baño, él puede verla.
Quizás,
ella esté recordando lo que sucedió esa madrugada.
Porque después de un rato, abre un ojo y lo mira.
Y sonríe con mucha dulzura.



Esperanza



‘‘Mi esposa’’, dijo Pinnegar,
‘‘‘‘cuando me abandona desea que yo destruya
‘‘ mi vida.".‘Ésa es su última esperanza’’.
‘‘D. H. Lawrence. Jimmy y la mujer desesperada




Me dejó el auto y doscientos dólares.
Dijo: ‘‘hasta luego, querido.
Tomate las cosas con tranquilidad ¿me entendés?

Esto es todo. Absolutamente todo.
Esto es lo que queda
después de veinte años de matrimonio.

Ella cree adivinar lo que sucederá.
Piensa que me voy a gastar la plata
en dos o tres días
y que tarde o temprano
voy a destruir el auto - que ya era mío
y que además necesitaba varios arreglos -.

Al momento de alejarme
Los vi, a ella y a su novio,
estaban cambiando la cerradura de la puerta.
Saludaron con el brazo en alto.
Los saludé de la misma manera.
Sólo para que supieran
que no había malos sentimientos de mi parte.
Apreté el acelerador y me alejé rápidamente.
Estaba como atolondrado.
Ella, por lo menos, tenía razón en eso.
Seguí el camino de la ruina.

El alcohol fue mi compañero fiel.
Resultamos buenos amigos.
No me detuve.
Recorrí el largo camino sin escalas.
Pude, al fin, dejar en el pasado
A mi amiga, la botella
.
Meses, quizás años más tarde,
cuando aparecí frente a la puerta
de esa casa
manejando un auto diferente,
sobrio, vistiendo camisa y pantalones
limpios y las botas bien lustradas,
ella lloró al ver mi cara.

Su última esperanza estalló en el aire.
Y ya no tendría más esperanzas.





Los desnudos de Bonnard

Su esposa.
Durante cuarenta años su modelo.

Él la pintó una y otra vez. El desnudo
de su último cuadro, es el mismo desnudo joven
del primer cuadro. Su esposa.

Él la recordaba joven. Los tiempos
en que ella era joven. Su esposa, en la bañadera,
en el tocador frente al espejo. Sin ropas.


Su esposa cubriéndose con las manos
los pechos duros, mirando hacia el jardín,
donde los rayos del sol desparraman
tibieza y color.

Todas las especies vivientes floreciendo.
Ella joven y temerosa y excesivamente deseable
en su desnudez. Cuando ella murió,
él continuó pintando un poco más.

Fueron algunos paisajes, luego se murió.
Lo enterraron junto a ella.
Su joven esposa.